giovedì 18 gennaio 2018

Stiamo sul cazzo, dunque siamo.



“Papà, cosa vuol dire Populismo?”
“Vuol dire stare con il popolo, amore mio”
“non dare retta a tuo padre, Populismo non vuole dire questo”

Ha ragione mia moglie, Populismo non vuol dire stare dalla parte del popolo, o per lo meno, non vuol dire solo questo.
Vuol dire innanzitutto stare sul cazzo, andare in odio (o in culo, a seconda del livello aristocratico del lettore) ai più:
ai conformisti,
ai finti rivoluzionari,
agli intellettuali colti e moralisti,così campioni di solipsismo da non farsi cogliere mai dal sospetto di avere questo problema,
al potere mediatico.
A chi crede di essere un ruolo invece che una persona.
A chi crede si sapere ( etarcoS ).
A chi non si interroga.
A chi guarda il telegiornale.
A chi vota il meno peggio.
A chi vota il meglio.
A chi fate presto.
A chi vieni con noi.
A chi è antifascista, femminista, europeista, egualitarista, ma pretende che lo sia anche tu e che lo sia proprio a modo suo!
A quelli delle fake news.
A quelli che scendono a pisciare il cane.
A quelli contro lo sciopero dei mezzi.
A quelli che quello li è una brava persona.
A quelli che non ti permettere.
A quelli che non conti un cazzo.
A quelli dell’impegno politico.
A quelli che facciamo un movimento ma solo come dico io.

Siamo populisti perché le etichette del regime noi ce le attacchiamo al petto con orgoglio.
Perché essere classificati come quelli che stanno sul cazzo in una società che premia soltanto stronzi, presuntuosi e ammanicati, se non è certezza del fatto che sei una persona almeno decente, come minimo è già un buon indizio.

Perché la nostra irrilevanza è la nostra forza e perché non ci avrete come volete voi.
Perché siamo stati stronzi mille volte e siccome non ci sentiamo troppo in alto sappiamo che lo saremo altre mille, ma lo saremo in disinteressata buona fede e in ogni caso "mai per conto terzi".

Soprattutto sotto elezioni ci piace stare sul cazzo di fronte a ciascuno venditore di salvezze vere o presunte,
Di fronte a quelli che siccome hanno fatto "qualcosa" si pretendono al di sopra di qualsiasi critica,
Di fronte a quelli che hanno tutte le soluzioni ma non si capisce bene perché non provino mai ad applicarne una nei 4 anni e 9 mesi che intercorrono tra una campagna elettorale e l'altra,
Di fronte a quelli che non vogliono provare a far crescere qualcosa crescendo col popolo, ma pensano sempre sia un atto loro dovuto che il popolo li segua,
Di fronte a quelli che pensano di sapere cosa il popolo voglia, ma non ci stanno in mezzo per chiederglielo.

Non provate a venderci la vostra salvezza, non compriamo.
Anzi, per citare un eroe dei nostri tempi, noi siamo al verde, andiamo in bianco e il nostro conto è in rosso, quindi possiamo essere fedeli alla nostra bandiera.Noi non stiamo sul cazzo a tutti quelli che sono come noi, perché non è un solipsistico elitismo il nostro cioè una ricerca del disprezzo per coltivare l'orgoglio di elevarsi dalle altre persone.
Al contrario noi vogliamo stare sul cazzo a chi sta sopra di noi e, non essendoci ancora riusciti perché di noi non si sono accorti, riusciamo però nel frattempo a stare molto sul cazzo a chi si crede al di sopra di noi.
E questo ci conforta dato che ci dice che nell'irrilevanza abbiamo trovato quella libertà dal giudizio degli altri che ci permette di fare schifo ai conformisti, ai bigotti di qualsiasi verità preconfezionata, ai questurini della fantasia, ai secondini dell'ironia e finanche a quelli dell'(auto)erotismo e a tutti gli abituati a prendersi molto sul serio proprio perché sono poco seri e che per questo non sanno mai ridere di sé.

Come abbiamo già affermato in una recente occasione: <In questo mondo di falsa politica il nostro fiore all’occhiello è l’irrilevanza.>
Se qualche anno di resistenza umana in comune qualcosa ci ha insegnato è che l'irrilevanza è una questione di riconoscimento sociale, da non confondere con l'insignificanza che è una condizione esistenziale.
Si può essere irrilevanti senza per fortuna essere insignificanti.
Ed essere parte di una comunità umana di irrilevanti serenamente pacificati col fatto di esser tali, e intenzionati a rimanere tali in virtù dello stigma sociale di quelli tanto per bene, a proprio modo, è meraviglioso.

Si, della vostra riprovazione non ce ne frega un cazzo ed anzi essa è la benzina che alimenta la nostra identità.



Aderiamo dunque al manifesto degli Irrilevanti del Marchese Fulvio Abbate che riportiamo di seguito.

di Fulvio Abbate

Irrilevanti di tutto il mondo unitevi! Se fosse un manifesto – il Manifesto degli Irrilevanti, appunto – dovrebbe aprirsi proprio con queste parole, benché già sentite, decisamente retoriche, tuttavia convincenti per chi voglia contarsi e uscire dalla botola nella quale quegli altri, cioè coloro che invece a vario titolo “contano”, ti hanno buttato dentro. Perché gli irrilevanti sono, sì, maggioranza, ma anche incapaci di dire a se stessi, e dunque trasformare questa condizione oggettiva indotta in combustibile narcisistico, torba per sollevarsi davanti alla miseria di chi invece può, “ha potere”, gode della considerazione sociale presso ogni angolo di strada e caseggiato. Dire a se stessi, appunto, che no, non ci avranno, così senza neppure bisogno di credere alle scie chimiche e ai rettiliani o ritenendo che sia “colpa degli stranieri”. Intendiamoci, se certuni hanno buon gioco a discapito di altri, cioè degli irrilevanti, molto dipende dal fatto che la miseria culturale è ormai generalizzata, non esiste pensiero sulle cose, semmai adesione acefala a un tempo che, se dovessimo riferirlo alle stagioni cinematografiche, andrebbe detto dei “telefonini bianchi”, il genere più amato e comprensibile in mediocrazia. La lista degli acefali è assai lunga, ciononostante proveremo ad accennarla, sia pure per difetto. Al tifoso non puoi toccare la sciarpa, all’hipster la barba, ai brigatisti non puoi sfiorare l’orgoglio di aver assassinato Moro; a quegli altri, i sensibili di sinistra, non puoi dire male dell’ultimo film della Archibugi o di Virzì; ai fascisti non puoi toccare il duce, alla nipote del duce non puoi dire che il duce era cattivo, alle neofemministe non va detto che, con la scusa di Weinstein, qualcuno vorrebbe reintrodurre la verginità, agli amministratori di condominio non puoi dire che provi orrore per i loro miseri millesimi, a Berlusconi non puoi dire che le sue dentiere non funzionano, ai leghisti che le razze non esistono. E questo in un mondo, in un paese, dove tutti si guardano in faccia con risentimento tenendo stretti in pugno proprio i millesimi, come fossero figurine Panini, e con questo ritengo di avere detto se non tutto, molto.
Sia chiaro, l'irrilevante non è tale rispetto ai propri eventuali limiti oggettivi, lo è semmai poiché qualcuno ha deciso che debba essere tenuto in quella condizione, in quella condizione permanente, il caso della carta stampata e di tutti gli altri media, in questo senso, parla chiaro: si lavora a selezionare le opinioni, a depotenziale, e intanto si dice che il web andrebbe presidiato per il bene di tutti. Perfino a sinistra l’hanno detto, evidentemente la fuga dal controllo si fa sentire, e dunque chi deve, chi può, corre ai ripari. Non sia mai che qualcuno si organizzi da solo? Ho semplificato, lo so, ma spero capiate lo stesso.
La condizione dell’irrilevante, talvolta, fa pensare, anzi, è assai simile alla trama di un film d’anni fa: prendono uno e gli dicono di restare nascosto sotto terra, a pedalare per produrre elettricità perché la guerra non è ancora finita, visto che, nel frattempo, gli eroici partigiani stanno ancora combattendo, lo tengono lì con l’inganno, e lui intanto pedala pedala, “… mi raccomando, non fermarti, che dobbiamo ancora vincere la guerra!”, così gli dicono, e quello, obbediente alla causa, alle parole degli altri, fiducioso, pedala affinché le lampadine della futura vittoria restino sempre accese, facciano luce al trionfo che sarà. Poi, un giorno, per puro caso, sempre lui, quello che tenevano sotto terra, dà un’occhiata fuori dalla cantina e scopre che in strada, alla luce, c’è, metti, Rita Pavone che canta “Il ballo del mattone”, dunque non era vero che la guerra ancora… A quel punto, presa coscienza dell’inganno, l’uomo si imbruttisce e decide di abbatterli tutti. Lo so, è assai difficile in un paese segnato dal familismo immaginare un simile festoso epilogo. Però almeno gli artisti, gli intellettuali, gli scrittori è bene che ci provino, visto che non spetta loro lavorare per il consenso, siamo forse ancora al tempo della querelle tra Togliatti e Vittorini, no? La “vocazione maggioritaria” è l’ennesimo inganno, dopo quella del “compromesso storico”.
A proposito di fantasia cui far ricorso nella condizione di irrilevanza, ho un’altra storia da raccontare. A Palermo, molti anni fa, nacque l’Associazione indigenti, lui, il leader, se così può dirsi, si chiamava Salvatore Raia, un povero pieno di iniziativa, però un povero povero. Raia, fra poco altro, campava attaccando nottetempo i manifesti per il Pci (e anche per il manifesto, che allora, era il 1972, aveva candidato l’anarchico Valpreda per farlo uscire di prigione, cosa che fece infuriare i comunisti, ora che ci penso, quando se ne accorsero), Raia, cui è stato perfino dedicato un romanzo scritto da Matteo Collura, “Associazione indigenti, ovvero i miserabili a Palermo”, Einaudi, 1979.
Con una corte di poveri e straccioni, il suo personale Sesto stato, Raia, periodicamente, forte proprio di un’immensa incancellabile irrilevanza, andava sotto i palazzi del Comune a protestare per far ottenere uno straccio di sussido a quel popolo già straccione e sdentato, simile ai poveri mostrati da Luis Buñuel in “Viridiana”, o forse bastava un semplice piatto, un buono-pasto; una volta, Raia e i suoi, decisero perfino di andare tutti insieme a Roma, a trovare, a presentarsi dal papa, come se questi, proprio il papa, fosse un amico, una sorta di mega-assessore planetario alla casa, all’assistenza, al pane e al vino, cui raccomandarsi, peccato per loro, peccato per tutti, i poliziotti li fermarono mentre, come in un esodo, stavano per salire, in centinaia, sul treno, ne venne fuori un parapiglia, una carica dove, la più povera e anziana di tutta l’armata Raia, in segno di difesa e forse anche di arcaica rivolta, dette in faccia a un agente della polfer un piatto-souvenir di ceramica con l’effigie di Giovanni XXIII, il “papa buono”. Ma il piatto non si ruppe.
“E questo significa, tu lo capisci cosa significa? Significa che ha stato un miracolo”, disse la povera vecchia nel suo povero dialetto dei cafarnai cittadini, subito confortata da un grande cenno pronunciato con il capo da Salvatore Raia, analfabeta, giacca cachi e penna nel taschino, tuttavia perfino munito di biglietto da visita che ne qualificava orgogliosamente il proprio ruolo sociale, da autoconvocato, "Presidente dell' associazione Anonima indigenti". Raia, che aveva perfino un suo segretario, tale Serio, incaricato di scrivergli e decifrargli le lettere, quasi un ambasciatore, un ministro plenipotenziario del suo antistato parallelo.
Proprio Raia, pensando agli irrilevanti, costretti ad affrontare il cinismo crudele degli altri, i convinti che l’assenza di ambizione per il potere sia uno stigma, così come la povertà, l’assenza di voce che non incontri soltanto lo scherno dei ruffiani e degli ostaggi dell’autorità riconosciuta, e qui, forse, c’è una delle spiegazioni all’agonia attuale della sinistra, proprio Raia mi è tornato ancora in mente guardando, sempre per caso, l’altro giorno, una foto dei funerali di Togliatti, dove una nonna tiene per mano una bambina, lì immobili sul marciapiedi dell’agosto 1964, in attesa che passi il carro funebre, e la bambina guarda l’obiettivo, dove immaginare adesso, adulta, quella bambina? Ma sopratutto, tornerà mai il sogno del viaggio? Tornerà mai il rispetto, a cominciare da noi stessi, per ciò che Pier Paolo Pasolini chiamava “l’epopea degli umili”? Ma soprattutto, dove sarà adesso il piatto miracoloso di papa Giovanni?

Irrilevanti di tutto il mondo uniamoci! 

Solo una piccola annotazione vogliamo aggiungere, come se fosse un piccolo apostrofo di narcisismo identitario, il plutonio che alimenta il nostro sdegno.

Ci chiamiamo Un Pezzo, Un Culo per tributare il nostro massimo rispetto e devozione alla memoria di Gian Maria Volonté, artista del Popolo, che per tutta la vita ha denunciato l'orrore morale dei potenti, dei rilevanti e attraverso di lui tributiamo il nostro debito di riconoscenza anche al personaggio di Lulù Massa, cui dobbiamo il nome, anche se non era un eroe.
Anzi, proprio perché non era un eroe.

Il nostro nome però dipende anche da quello che il regista Elio Petri disse quando La classe operaia va in paradiso uscì:

<Con il mio film sono stati polemici tutti, sindacalisti, studenti di sinistra, intellettuali, dirigenti comunisti, maoisti. Ciascuno avrebbe voluto un'opera che sostenesse le proprie ragioni: invece questo è un film sulla classe operaia>

Noi non li vogliamo più politicanti, sindacalisti, sòloni, professorini e fighetti che ci dicano cosa dobbiamo essere, fare e dire per liberarci, rifilandoci così soltanto un'altra gabbia che a loro piace di più.
Noi ci fregiamo di pisciare in faccia alla loro presunzione.
Noi siamo e tanto basta.


Il Collettivo Populista UPUC, Un Pezzo, Un Culo.


Avanti Fulvio!
Siamo con te, e con Situazionismo e Libertà e ci fregiamo dell'onore di nominarti per acclamazione membro del nostro collettivo di irrilevanza, ma non insignificanza, e resistenza umana.

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