lunedì 15 maggio 2017

Brevi note a seguito dell’istituzione dei progetti Erasmus nelle scuole primarie

Prima di tutto vorrei anticipare il mio pensiero personale che ritiene l’insegnamento l’ambito proprio dell’istituto scolastico e l’educazione quello della realtà famigliare. I due soggetti sociali possono sviluppare sinergie collaborative in tali ambiti senza però sostituirsi a quello a cui ne è demandata la gestione.

Successivamente vorrei evidenziare il fatto che attualmente ci troviamo all’interno di una costruzione sociale basata sul concetto di “individualismo metodologico”. La competizione è elevata a fattore legislativo, discriminante di ciò che può essere fatto e di ciò che non è conveniente. Questo permea inevitabilmente le azioni ed il modo di pensare di ognuno di noi: nella scuola, nella professione, nei rapporti estemporanei, nella visione socio-politica. Per dirla con le parole dei sociologi: si sostituisce l’idea dell’uomo aristotelico con quello dell’uomo hobbesiano.

Da ciò discende la necessità di una più critica visione di quello che le istituzioni tendono a proporre alle parti sociali. Spesso ammantate di alti contenuti sociali e comunitari, rimangono comunque conseguenti alla visione liberale della società e per questo indissolubilmente legate a fattori disgreganti la collettività.

Il tentativo di gestione che le istituzioni scolastiche attuano nell’ambito educativo promanano da questa costruzione. Relegata ai margini dell’assetto sociale, precarizzandone le basi economico-sociali, la famiglia non è ritenuta idonea a perseguire il percorso formativo dei figli come persone, come cittadini, come elementi sociali. Viene dunque sostituita nei suoi doveri sociali con una visione più centralizzata ed organica allo status quo.

I reiterati riferimenti ad una “comunità di valori a cui gli alunni appartengono”, alla volontà di “sviluppare un senso di responsabilità comune per lo sviluppo e la crescita della comunità locale ed europea” che sovente si possono trovare nelle documentazioni progettuali istituzionali fanno capo non già alla società esistente ma ad una forma resistente e necessariamente contraria alla società stessa. Forma resistente costituita da tutte quelle realtà associazionistiche e di volontariato solidale che operano in aperto contrasto alla costruzione liberale attuale.

Non a caso l’associazionismo dei genitori si scontra sovente con l’istituzione scolastica, rea di essere troppo burocratizzata, poco collaborativa, oscura nelle sue azioni. Sono due mondi che si approcciano il più delle volte in maniera conflittuale.

Ecco dunque che le istituzioni liberali invadono proditoriamente la dialettica del tessuto collettivo, se ne impossessano in chiave individualistica e la ripropongono modificata e stravolta.

Come interpretare positivamente infatti il giusto scambio di esperienze internazionali quando i sentimenti di appartenenza alla propria comunità sono i primi ad essere demonizzati?

Come intendere in senso costruttivo l’insegnamento delle lingue straniere se non si associa ad esse un forte legame alla propria identità storico-territoriale?

L’ambito nel quale questi progetti vengono proposti è lo stesso in cui ogni genitore ritiene corretto fuggire dalla realtà scolastica che vive quotidianamente nel momento in cui si evidenziano problematiche o malfunzionamenti. La struttura sociale gliene da piena possibilità. E, particolare da non trascurare, le alternative vengono trovate molto spesso in realtà scolastiche private, accessibili solo per ceti sociali abbienti, determinando quindi una selezione all’interno della comunità stessa.

Ma nonostante queste evidenze ogni individuo, davanti alle coinvolgenti narrazioni dei progetti istituzionali si ritrova a condividerne la costruzione, travisando la favola con la realtà. Non è scorretto farne un parallelo con lo sconosciuto che offre caramelle ai bambini fuori dalle scuole dove l’innocenza di un dolce incartato nasconde secondi fini.


A mio avviso quindi è necessario rigettare qualsiasi attività proposta al di fuori del percorso didattico, già di per se menomato in molte sue caratteristiche sociali. Non prima almeno di averlo equilibrato con un progetto eguale e contrario che prenda in esame l’apprendimento del pensiero critico della persona, dei doveri civici, dell’identità territoriale.

Roberto

giovedì 4 maggio 2017

Belli i tempi...


Belli i tempi dove al posto dei Post su FB passavi il diario ai compagni di banco che te lo riempivano di scritte, adesivi, pacchetti di sigarette e preservativi incollati tra le pagine, etichette di birre scadenti scolate al sabato al concerto e disegnini scarabocchiati, dove appariva un timido TVB e l'emoticon non sapevi neanche cos'era.

Belli i tempi dove non avevi bisogno di " uots app ", ne te ne
sarebbe fregato niente se non funzionava, tanto per scendere e beccarsi ci si urlava dai balconi.

Bei tempi quelli dove in strada trovavi gli amici e non avevi bisogno dello "status online" ne delle doppie conferme in blu, sapevi che il branco aveva una tana e la potevi rifugiarti senza bisogno di annoiarti tra la condivisione di un aforisma o un meme. I nostri covi erano cantine abbandonate, sporche e disagiate ma nessuno di noi si ammalava e si cresceva forti come tori.

Bei tempi dove il bullismo era un rito di passaggio e imparavi a prenderle e a darle, dove se tornavi a casa piangendo i tuoi ti insegnavano ad essere più forte e non correvano a difenderti come se fossi un bambino. Erano gli anni delle " immense compagnie, in motorino sempre in due ", delle giostre a maggio dove prendersi a mazzate con gli zingari ma senza razzismo, non lo facevi solo contro di loro perche erano sporchi e vivevano nei campi, perchè il tuo primo "nemico" stava oltre il ponte e aveva la pelle del tuo stesso colore e una batteria come la tua.

Stavamo in mezzo alla strada dalla mattina alla sera, senza cellulari per contattarci ne telecamere per sgamarci, eppure era un mondo più brutto e sgarruppato di quanto lo sia adesso e nessuno di noi temeva il futuro, anzi il futuro era la oltre uno dei 4 ponti che divideva il quartiere dalla città di Milano.

Quella carcassa della Milano proletaria delle Fabbriche, dei Bar dove il dialetto si fonde davanti alla Gazzetta, della Milano dal Cuore in Mano che a noi ci ha sempre visto come figli di un Dio minore.

C'è uno status che vivi da sempre, che non puoi cambiare se non con la tua volontà quotidiana, è lo status di chi non è ne vinto ne vincitore, ma sopravvissuto.
Oggi più di allora abbiamo bisogno di narrazioni, di racconti, di epiche e di memorie.


Oggi ne abbiamo bisogno più di allora, quando queste avventure le vivevamo.


Aaron

mercoledì 3 maggio 2017

25 Aprile populista

Il Collettivo, nel giorno della Liberazione, è sceso in strada per gridare a tutti il messaggio populista.


Per gridarlo forte, senza fraintendimenti, senza le mezze parole diluite nel politicamente corretto.
Il messaggio è arrivato, forte e chiaro. Ed è giunto limpidamente separato dalla retorica destrorsa “dell’altro capitalismo” con cui i ragazzi dalla polo verde pensano di irretire la gente.

Nessuno dei partecipanti alla manifestazione ci ha dunque tacciato di leghismo, obbedendo a motivazioni personali di cui volutamente ignoriamo le basi: qualcuno scuoteva la testa, altri rimanevano rapiti dal messaggio, altri approvavano ma ancora in maniera troppo composta e personale, non cogliendo il messaggio nell’intimo del suo schierarsi “contro” senza mezze misure.


Separare la folla col coltello populista entrando in Piazza del Duomo è stato una gratificazione esaltante.
Guardare negli occhi gli astanti increduli ripaga (parte) del lavoro di pianificazione ed attuazione.


Noi andiamo avanti, Don Chisciotte contro i mulini a vento, Jeanne D’arc contro le istituzioni egemoni, consci di essere dalla parte del giusto.


Viva l’Italia ed il suo popolo
Roberto